In più della metà delle carceri italiane si fa teatro. Da questo dato inizia il colloquio con la professoressa Valentina Venturini del dipartimento di Teatro dell’Università di Roma Tre che confessa il suo sogno nel cassetto: “togliere al teatro la definizione di intrattenimento per farlo diventare forma fondamentale del trattamento carcerario con gli stessi diritti del lavoro e della scuola”.
Un progetto ambizioso? “Forse sì” ammette, ma “il teatro è un mezzo efficace per il lavoro personale dei detenuti e al contempo un occasione per il Teatro stesso”. E’ un fatto, spiega, che “la recidiva tra chi fa teatro in carcere scende al 6%, ed è un fatto che il teatro recitato dai detenuti molto spesso acquista un dato di verità e di realtà che raramente si trova tra gli attori professionisti”. E a dimostrazione di quest’ultima affermazione chiama a supporto Fedor Dostovjeski.
Lo scrittore russo, non solo diceva che gli uomini sono uomini anche in carcere, ma in “Memorie dalla casa dei morti” scrive del rapporto tra carcere e teatro. In modo molto efficace, perché lui in carcere c’è stato e racconta la sua esperienza.
Era un paio di secoli fa, a metà ottocento, ma rileggerlo non ha perso di attualità. la professoressa cerca la frase giusta tra le pagine del libro: “Così lo spettacolo finisce […]. I detenuti si sbandano allegri, contenti, facendo gli elogi degli attori e ringraziando il sottufficiale. Non si sentono diverbi.
Tutti sembrano contenti, felici persino, e si addormentano diversamente dal solito, con animo quasi tranquillo. Perché mai? No, non è un parto della mia immaginazione. È la semplice e pura verità. Per pochi brevi momenti era stato concesso a quella povera gente di vivere secondo il loro desiderio, di divertirsi umanamente, di trascorrere almeno un’ora non da forzati, ed ecco, non fosse che per pochi minuti, avvenire un benefico cambiamento nello spirito dell’uomo”.
Per dimostrare l’efficacia del binomio carcere-teatro la professoressa ha pensato non solo di portare il teatro in carcere, ma di portarci anche gli studenti. Così uno dei tre laboratori della sua cattedra consiste in 36 ore in un anno che gli studenti trascorrono con i detenuti lavorando a un progetto teatrale. “Da tre anni – racconta – lo sta portando avanti il regista Fabio Cavalli. E’ importante per i ragazzi prendere contatto con una realtà consolidata. Serve agli studenti per rendersi conto di un altro mondo e anche che esiste un altro modo di fare teatro. Ho notato inoltre che quando ci sono gli studenti, gli attori-detenuti lavorano meglio”. “È interessante vedere – aggiunge Venturini – come lentamente le dinamiche interne al carcere svaniscono e lasciano il posto a quelle della compagnia teatrale. Ad esempio il protagonista della rappresentazione non è il capo clan, ma chi tra loro sa fare meglio l’attore. Questo inizialmente non sempre viene accettato automaticamente. Poi però si lavora tutti insieme con l’obiettivo che lo spettacolo non cada”. “E’ vero – ammette – i detenuti fanno teatro anche per essere presi in considerazione in modo diverso, però devo dire che nel tempo anche questo va via, e si fa teatro proprio per fare teatro”. “Il teatro non è solo fare intrattenimento, ma anche la possibilità di uscire dal proprio guscio, confrontarsi con un altro da sé e al contempo riappropriarsi del proprio sé. Ci sono gli aspetti della risocializzazione e del riconoscimento: da una parte il detenuto riesce a parlare con se stesso, dall’altra c’è il confronto con l’esterno. Le famiglie che entrano e che vedono il proprio caro in una luce diversa, che lavora bene… “.
“La mia idea – prosegue con entusiasmo – è di considerare anche tutti i mestieri che girano intorno al teatro: elettricisti, costumisti tecnici del suono e insegnarli ai detenuti anche in vista di un loro futuro fuori dal carcere. Per quanto riguarda poi la scelta degli attori, che pertiene al regista, è una grande responsabilità, bisogna scegliere bene le persone. Anche il teatro può diventare uno strumento pericoloso se usato male.
Si possono creare aspettative che non si possono avverare”. La professoressa Venturini non nasconde le difficoltà di fare teatro in carcere rispetto ad altre discipline, proprio per il contatto che si deve avere con i detenuti. “Ma sta cambiando” assicura. “I registi che scelgono di lavorare con i reclusi sanno che quando ci si mettono i detenuti possono emozionare profondamente. C’è la consapevolezza che si sta costruendo un altro modo di essere, perché quella è l’unica possibilità che il detenuto ha in quel momento di essere diverso. Non trovo questo sforzo nel teatro normale. Sono più veri quelli che vivono in condizione di non libertà. Ci stanno in quello che fanno. Corpo e anima, E lo spettatore lo sente. Se si riesce a guidarli (cosa che dipende dal regista e dalla sua competenza), si trova una verità che fuori non si trova più”. (di Simonetta Dezi) (ANSA)
Con teatro in carcere la recidiva diminuisce
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