Il dente di un ominide vissuto 7,2 milioni di anni fa potrebbe spostare indietro nel tempo le lancette dell’evoluzione umana e indicare che le origini dell’uomo non vanno cercate in Africa, come si riteneva finora, ma lungo le coste orientali del Mediterraneo. Lo indicano due studi pubblicati sulla rivista Plos One dall’Università tedesca di Tubinga e dall’Accademia bulgara delle Scienze. La scoperta tuttavia non trova consenso unanime nel mondo scientifico: sarebbe potenzialmente rivoluzionaria ma ancora povera di prove, secondo il paleontologo Lorenzo Rook, dell’Università di Firenze.
Dove sia vissuto il primo antenato dell’uomo è un tema da sempre molto dibattuto nella paleoantropologia. Fino ad ora si riteneva che le linee evolutive tra uomo e scimmia si fossero separate nel periodp compreso fra 5 e 7 milioni di anni fa e che i primi ominidi si fossero sviluppati in Africa. Ma le due ricerche appena pubblicate delineano un nuovo scenario sulle origini dell’uomo.
I ricercatori coordinati da Madelaine Böhme, dell’università di Tubinga, e da Nikolai Spassov, dell’Accademia bulgara delle Scienze, hanno analizzato parte dei resti fossili di due ominidi del genere Graecopithecus freybergi: una mascella inferiore ritrovata in Grecia e un premolare superiore trovato in Bulgaria. I risultati indicano che le radici dei premolari sono fuse, “una caratteristica dell’uomo moderno e di molti ominidi, tra cui l’Ardipithecus e Australopithecus”, ha dichiarato Böhme.
Anche la datazione dei resti confermerebbe la loro origine mediterranea. I ricercatori hanno infatti datato i fossili provenienti dai due siti ad un’età compresa fra 7,24 e 7,175 milioni di anni fa. “Questa datazione ci permette di spostare la divisione umano-scimpanzé nell’area mediterranea”, sottolinea uno dei ricercatori, David Begun, paleoantropologo dell’università di Toronto.
Tutte queste prove non sarebbero tuttavia esaurienti. Non è la prima volta, ha rilevato Rook, che viene ipotizzata l’origine della nostra linea evolutiva in Europa. Inoltre, ha aggiunto, “questa rinnovata ipotesi si basa su resti scarsi e frammentati. Solo il tipo di analisi è nuovo: realizzata con una tomografia di ultima generazione, grazie alla quale non solo è stato possibile fare delle nuove datazioni, ma vedere le radici fuse. Tuttavia – ha concluso – la fusione delle radici è un carattere molto variabile anche all’interno di una stessa specie”.