L’allagamento del settore del parco archeologico di Sibari chiamato Parco del Cavallo, il solo visitabile fino a martedì scorso, prima che fosse chiuso per ragioni di sicurezza, si deve, leggo in un’ANSA che riporta dichiarazioni della Direttrice, Adele Bonofiglio, al fatto che le cosiddette trincee drenanti hanno smesso di funzionare. In attesa di ripristinarle bisognerà riattivare il vecchio sistema well point, salvo riparare la centralina Enel che ne consente il funzionamento. Quest’ultima, apprendo dalla Direttrice del Polo Museale della Calabria, Angela Acordon, messa forse fuori uso da un fulmine durante lo stesso evento atmosferico estremo che ha allagato il parco, era stata già riparata nei mesi scorsi (con una spesa di quasi 20.000 euro), dopo un guasto di natura, invece, alquanto dubbia. Occorreranno oltre 5000 euro per il nuovo intervento, reso urgente dallo stallo del sistema sostitutivo.
Alla luce del fallimento delle controverse trincee drenanti, osannate da alcuni e guardate con sospetto da altri, me compresa (per le ragioni che poi dirò), e la cui riattivazione, poiché la grande vasca connessa non può essere ispezionata se non rimuovendo la pavimentazione romana asportata e poi riposizionata una prima volta all’atto della costruzione dell’invaso, operazione complessa e costosa che con ogni probabilità occorrerà ripetere ad ogni ingolfamento del sistema, CHIEDO, provocatoriamente, di procrastinare pressoché sine die LA CHIUSURA DEL PARCO DI SIBARI.
La chiedo, cioè, non finché le idrovore avranno aspirato l’acqua accumulatasi martedì scorso negli scavi ma almeno fino a quando lo Stato non vorrà affrontare seriamente il problema Sibari, annoso e intricato, cui la citata dott.ssa Acordon, in procinto di lasciare la Calabria senza che ancora si sappia chi la sostituirà, ha tentato strenuamente di porre rimedio senza riuscirci. Né avrebbe potuto, salvo disporre di mezzi sovrumani.
Sibari la splendida, distrutta nel 510 a.C. dopo poco più di duecento anni di vita, a metà del V secolo a.C., a sessant’anni di distanza dalla guerra con la rivale Kroton (dove all’epoca dimorava Pitagora), era già uno dei miti della civiltà ellenica e dell’intero mondo mediterraneo che ne riconosceva il primato intellettuale. L’Atene di Pericle decise allora di sponsorizzarne la rinascita, coinvolgendo pressoché tutti i Greci nella fondazione di Thurii, sorta nello stesso sito della città arcaica scomparsa ma alla quota frattanto raggiunta dai depositi alluvionali. Le menti più brillanti del tempo fecero di Thurii il banco di prova della città ideale: progettandone l’impianto urbano, codificandone il sistema legislativo, eleggendola a proprio domicilio. Una mobilitazione generale per certi versi paragonabile a quella della comunità internazionale dopo le recenti devastazioni di Palmira, dettate entrambe dal sentimento condiviso della irrinunciabilità dell’esistenza di quella esemplare esperienza culturale.
A partire dal Rinascimento, la riscoperta della più celebre città achea d’Occidente fu un desiderio vivissimo per generazioni di storici, antiquari e archeologi, finalmente esaudito solo nel 1932, grazie alle ricerche dell’indimenticato Umberto Zanotti Bianco. Dagli anni ’70 del Novecento, avviati scavi sistematici, il parco che impropriamente porta il nome della polis arcaica ma dove le sole vestigia rimesse in luce appartengono, giocoforza, alla fase tardo-antica della colonia romana di Copia, sovrapposta alla Thurii periclea, mentre Sybaris giace qualche metro in profondità, allagata dall’innalzamento dell’acqua di falda e del livello del mare, ha assorbito ingentissime risorse finanziarie pubbliche. Il denaro è servito sia per le indagini stratigrafiche sia, soprattutto, per il funzionamento costante del sistema well point, senza il quale sarebbe stato impossibile tenere sotto controllo il livello dell’acqua di falda in modo da garantire la praticabilità del parco. Un parco che però non è mai entrato davvero nel circuito turistico nazionale e stenta anche rispetto a quello calabrese, di per sé piuttosto asfittico.
Si dirà, e condivido l’impostazione, che lo Stato deve assumersi i costi della gestione palesemente antieconomica di Sibari anche solo in omaggio a quel mito della civiltà occidentale che essa è e che vi attira gente (singoli più che masse) tutto l’anno, da ogni parte del mondo. Se rinunciasse a tale onore/onere, la riprovazione nei confronti del nostro Paese avrebbe portata planetaria. Bisogna però avere anche il coraggio di dire che c’è un vulnus, in tutto questo.
Il parco di Sibari, dal punto di vista della spesa annuale, che oggi, per garantire l’accesso al pubblico in condizioni di minimo decoro, si attesta sui 100.000 euro nonostante i vantaggi sperati dalle trincee drenanti, è da sempre un pozzo senza fondo. Lo è stato, negli anni scorsi, sia per i costi esorbitanti della bolletta elettrica legati al funzionamento del sistema well point, sia, soprattutto, per una costante cattiva gestione, o meglio mancata gestione, fin qui tollerata o comunque contrastata in modo inefficace dal Ministero competente.
La discontinuità insediativa che ha ‘protetto’ i resti del triplice insediamento antico, evitando o riducendo al minimo quello scontro di opposti interessi che invece caratterizza Crotone e Reggio, sopravvissute nella propria sede storica, ha privato Sibari-Thurii–Copia di una comunità cittadina contemporanea che, sentendosene erede diretta, esercitasse un minimo di controllo e chiedesse conto delle decisioni assunte in sede centrale e periferica. Così, la marginalità geografica dell’ufficio sibarita della Soprintendenza ne ha fatto, per anni, terra di nessuno, deresponsabilizzando persino i funzionari e i tecnici incaricati di gestirla.
Comportamenti inappropriati, talvolta al limite della legalità, esercitati da singoli dipendenti, hanno condizionato l’agire di tutti e sono stati tollerati a causa di un generalizzato disimpegno. Il pubblico, specialmente, ha fatto le spese di questa situazione, poiché i servizi all’utenza, fino alla inversione di tendenza registrata in anni recentissimi, e di cui si deve dare atto alla dirigenza attuale, non sono stati percepiti come una priorità, salvo essere compensata, quella ’anarchia organizzata’, da un’amenità e una suggestione dei luoghi che hanno sempre incantato i visitatori, disposti perciò a perdonare generosamente ogni disfunzione.
L’esondazione del Crati nel 2013 non ha cambiato le cose. Alla breve stagione della solidarietà internazionale sorta sull’onda emotiva delle immagini della sommersione degli edifici del Parco del Cavallo, quasi restituito alla condizione del 1932, quando Zanotti Bianco riconobbe la sede della città antica da una colonna dell’emiciclio-teatro affiorante dal terreno perché rimasta in situ in posizione verticale, è seguito un riassestamento sulle vecchie logiche. Apparteneva a queste ultime anche il progetto delle trincee drenanti, sperimentato dapprima nel cantiere chiamato Prolungamento Strada, perché interdetto al pubblico, e successivamente applicato anche nel Parco del Cavallo.
Un esperimento, appunto, che ha mostrato tutta la sua vulnerabilità fin dalla stagione iniziale ma che nessuno, in presenza di finanziamenti milionari già richiesti e accordati per estenderlo a tutta l’area archeologica, ha ritenuto di interrompere o almeno ripensare criticamente.
Ne parlo a ragion veduta, perché ebbi l’incarico dall’allora Direzione Regionale, con un collega, di svolgere la sorveglianza archeologica durante la realizzazione delle prime trincee, e il cantiere era aperto da poco alla data dell’esondazione del gennaio 2013, costata una sospensione di sei mesi. Una sorveglianza blanda, ci tengo a precisare, perché tale fu l’imposizione venuta direttamente dai vertici regionali del MiBACT, con tanto di nota ufficiale, pochi giorni dopo l’avvio dell’attività stessa. Nonostante l’ordine ivi impartito agli archeologi di tollerare, all’interno di un parco, ciò che fuori dall’area demaniale e da parte di un committente privato non sarebbe stato mai consentito, le vestigia di Copia e di Thurii – non furono raggiunte quelle di Sibari – emersero con tale monumentalità da imporre varianti sostanziali al progetto originale. Fu lì che, coincidendo il sito previsto per il posizionamento della grande vasca con i resti monumentali di una domus di Copia, ovviamente inamovibili, fu deciso di spostarla nella sede stradale. Si supponeva, infatti, e a ragione, poiché il lastricato romano ricalca uno degli assi viari principali di Thurii, che le preesistenze sarebbero state minori/nulle .
Al di là delle modifiche progettuali di volta in volta adottate per fare fronte a situazioni impreviste, modifiche non prive di ricadute sull’efficienza dell’opera eseguita, i dubbi circa l’idoneità delle trincee drenanti a svolgere il compito atteso attanagliavano già allora chiunque avesse un minimo di competenze tecniche. Quanto oggi ammesso dalla dott.ssa Bonofiglio e riportato dall’ANSA era facilmente prevedibile fin dall’inizio. Ciò nonostante, cioè bendandosi gli occhi davanti all’esito quantomeno discutibile dell’esperimento, il modello inaugurato a Prolungamento Strada è stato replicato senza esitazioni nel Parco del Cavallo. E poco mi consola sapere che gli scassi eseguiti in quel settore hanno consentito, incidentalmente, di scoprire nuove interessantissime terrecotte architettoniche arcaiche. A quale prezzo?!
Se nella sorveglianza del 2013-2014 ero un’archeologa esterna all’Amministrazione, quindi mera esecutrice di ordini; oggi posso invece guardare a quanto accade nel Parco di Sibari in una veste nuova: nella qualità di parlamentare e membro della 7a Commissione Permanente del Senato, cd. “Cultura”, dove agisco su incarico e per fare gli interessi della collettività. Nel 2013-2014 mi era data solo la possibilità di esprimere (verbalmente) le mie perplessità ai decisori ministeriali, di valorizzare, in sede di relazione, l’importanza archeologica dei resti intercettati a quote più alte della profondità che il progetto avrebbe richiesto di raggiungere, e di prestare la massima attenzione alla documentazione di ciò che si sceglieva di sacrificare all’intervento presentato come risolutivo. Oggi, invece, posso chiedere, e chiedo, che il MiBAC guidato da uno dei ministri chiamati a realizzare il cambiamento in cui confido, l’on. Alberto Bonisoli, nomini una commissione tecnica per (ri)valutare la situazione.
Chiedo che la nomini attingendo all’ambiente universitario (meglio se identificando ingegneri idraulici e geologi di diversi atenei) e comunque all’esterno dell’Amministrazione dei Beni Culturali. Occorre accertare se e come stiano funzionando le trincee drenanti, quali garanzie offrano, se ne offrono, e soprattutto a quale spesa annuale si assoggetti il Parco archeologico di Sibari volendo mantenerle in funzione. E se magari non sarebbe più conveniente, nell’assolata piana di Sibari, utilizzare fonti energetiche alternative per produrre ‘in casa’ l’elettricità assorbita dal vecchio e glorioso well point o da altro sistema analogo che abbia il pregio di un’altrettanto modesta invasività.
Merita anche sottolineare che i costi non sono solo economici. Smontare e rimontare diversi metri di strada romana anno dopo anno, se questa prospettiva dovesse essere confermata, significa anche mettere in conto la presenza di un cantiere pressoché permanente all’interno dell’area di visita, con ovvie limitazioni per il pubblico e complicazioni amministrative. Taccio, infatti, sia delle perplessità che tutto ciò suscita in ordine alla tutela del manufatto stradale, sia della distinzione di competenze tra il Polo Museale, che gestisce il parco, e la Soprintendenza, che grazie all’improvvida riforma Franceschini dovrà autorizzare i lavori di scavo ogni qual volta si rendesse necessario rimettere mano al tracciato delle trincee e alla vasca.
Se le trincee drenanti dovessero essere certificate come la scelta sbagliata che fin dall’inizio in molti abbiamo temuto e che martedì scorso si sono in fine rivelate, chiedo che, ammessa e dimostrata la buona fede dei progettisti e dei responsabili dei lavori del primo lotto, se mai sia possibile, si valuti però almeno il danno erariale per lo Stato derivante dalla decisione di ignorare l’esito infelice dell’esperimento condotto in Prolungamento Strada per ripeterlo, contro ogni logica che non fosse quella del vantaggio economico di pochi, anche nel resto del Parco di Sibari.
Fintanto che non sapremo meritare un simile luogo dell’anima, chiedo che lo stesso rimanga chiuso al pubblico e che ciò avvenga ad onta dei responsabili della passata gestione, facili da identificare, se si volesse chiedere loro conto sul piano patrimoniale, e come monito per quelli a venire.