Con una interrogazione sul superbonus al 110% per gli interventi antisismici pubblicata dal Senato il 13 luglio, rivolta ai ministri delle infrastrutture e trasporti, per il Sud e dell’Economia e delle Finanze, ho chiesto loro “se siano in grado di fornire elementi valutativi certi per una verifica dell’efficacia e della sostenibilità dell’iniziativa, in maniera da fugare l’impressione di trovarsi davanti alla soluzione di sempre: fare debito oggi per vederlo ripagato domani; un domani, questa volta, ravvicinato, perché spalmato sul quinquennio successivo all’erogazione del contributo, senza peraltro intervenire sensibilmente sulla dimensione del problema sismico che affligge il Paese.” In effetti, il tema della prevenzione sismica è stato assente dal dibattito che ha preceduto la compilazione del PNRR e nella definizione delle azioni previste gli è stata dedicata una sola marginale citazione. Non si giustifica, quanto accaduto, con la possibilità di accedere ad un bonus ampliato al 110% a prezzo di sopprimere il vincolo di ottenere un incremento misurabile della sicurezza negli edifici sui quali si interviene. I criteri per conferire il contributo ai cittadini delle Zone sismiche classificate da 1 a 3, con pari opportunità di accesso ovunque essi risiedano, non tengono infatti conto dei dati noti sulla distribuzione della pericolosità, della vulnerabilità e quindi del rischio. La migrazione di circa 1500 Comuni delle regioni settentrionali a sismicità molto bassa (Zona 4, esclusa dal beneficio) verso la a bassa sismicità (Zona 3, incredibilmente inclusa nel beneficio), che così è diventata ben più ampia della somma delle Zone 1 e 2, rafforza il carattere dispersivo di un’iniziativa finanziata con ben 23 miliardi di euro di soldi pubblici, favorendo soprattutto aree nelle quali la sismicità storica non ha memoria di danno o perdite significative. Il cittadino è così allettato, più che dalla consapevolezza del rischio a cui è esposto, dalla completa gratuità concessa dallo Stato. I pochi dati ufficiali disponibili sui primi 4 anni di esercizio rivelano, peraltro, che le risorse messe a disposizione sono state impiegate solo marginalmente in condomini e più spesso in abitazioni monofamiliari situate soprattutto di Lombardia, Veneto e Emilia Romagna: probabilmente, in gran parte seconde o terze case edificate in aree a basso rischio sismico. Se invece si fosse data priorità ai luoghi dov’è accertata una condizione di latente emergenza, cioè su circa il 20% del territorio nazionale, l’Italia centrale e meridionale sarebbero state protagoniste, tant’è che in certo qual modo, per quelle, l’iniziativa assume il carattere di una vera e propria distrazione di risorse pubbliche. Essa è in realtà finanziata a debito e si scaricherà inevitabilmente, nel quinquennio successivo, sulla fiscalità di tutti, pur avendo procurato vantaggio solo ad alcuni, senza la garanzia di avere realmente ridotto il rischio sismico gravante sul Paese. A sostegno, inoltre, si cita l’incidenza che essa avrà sulla crescita del PIL e soprattutto sulla capacità di risollevare il comparto dell’edilizia. Se però investire in prevenzione fosse talmente redditizio da consentire allo Stato di assumersi l’intero costo, e anche di più, non si capisce come mai ogni ricostruzione post-terremoto sia stata presentata e gestita, fin qui, come un disastro economico.
Margherita Corrado (Senato, Gruppo Misto)