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Ai tempi di covid-19 nella Piana di Gioia Tauro si continua a morire di ghetto. Amadou è solo l’ultimo di una
lunga lista di lutti, dopo Sekine, Moussa, Becky, Suruwa, Soumaila, tutti morti in circostanze diverse, ma per la
medesima causa: le infime condizioni di vita a cui sono stati costretti dalla strutturale condizione di
sfruttamento lavorativo e da una politica istituzionale che ha reso la regolarizzazione un percorso ad ostacoli
sempre più difficile. Non si tratta di una casualità ma di una strategia che ha scaricato sui braccianti i costi di
un’intera filiera che proprio per le condizioni di illegalità forzata in cui i braccianti sono stati costretti a lavorare
adesso si è bloccata. Se il lavoro nero o grigio non fosse la regola nei campi oggi nessuno dei braccianti avrebbe
problemi a raggiungere serre, orti e frutteti, né avrebbe problemi di documenti, né sarebbe obbligato a vivere nei
ghetti. E forse non ci sarebbe un altro morto da piangere. Per questo, nel dibattito in corso sul futuro prossimo
dell’agricoltura italiana è doveroso ascoltare la voce dei braccianti, cioè chi materialmente la porta avanti. Ci
stanno chiamando in tanti per chiederci di aiutarli ad avere una casa in affitto, ad emanciparsi dalle loro storie di
sfruttamento, per dirci che sono stanchi di essere trattati come animali, utili solo per le braccia che mettono a
disposizione per il guadagno di qualcuno, senza diritti di alcun genere. La crisi verticale del settore agricolo
dimostra quanto i braccianti migranti siano fondamentali, oggi come in passato, per far andare avanti il settore.
Per questo oggi è necessario porre fine all’invisibilità di questo esercito di lavoratori che deve essere
regolarizzato, messo in condizioni di lavorare in maniera dignitosa e con un salario decente. Si tratta di passaggi
che si possono e si devono fare in tempi brevi, al pari dell’inserimento abitativo di questi lavoratori, oggi più
che mai messi a rischio perché costretti a vivere in assembramenti di fatto, come ghetti e tendopoli, in piena
pandemia.
Ma soprattutto è arrivato il momento di chiamare in causa anche la grande distribuzione organizzata, che deve
essere obbligata a maggiore trasparenza nei propri processi di acquisto e vendita, perché i prezzi d’acquisto
ridicoli imposti ai produttori non fanno altro che far ricadere i costi sui braccianti, ultimo anello della catena.
Quando questo non è possibile, come nel periodo di crisi della filiera che stiamo attraversando, il rischio è che a
pagare siano i consumatori, costretti a garantire gli ampi margini di profitto con la Gdo con un verticale
aumento dei prezzi.
Si tratta di un terreno su cui il governo deve intervenire, ma anche Regioni e Comuni possono fare molto, a
partire da una “tassazione ad hoc” che costringa anche la Gdo a finanziare con i propri utili sempre in crescita,
ottenuti con sangue e sudore dei lavoratori, serie politiche di inserimento abitativo per i braccianti.