Riprendendo i contenuti della proposta di Boeri, Ichino e Moretti di introdurre meccanismi flessibili di determinazione dei salari, l’obiettivo di questo contributo(*) è di mostrare come sia già in atto su base territoriale una dinamica di allineamento del costo alla produttività del lavoro. Si argomenta come il nuovo regime salariale non rappresenti lo strumento più idoneo per ridurre i divari di sviluppo tra il Nord e il Sud del paese.
Perché i salari dovrebbero essere differenziati. Dal Pacchetto Treu al Jobs Act, le riforme che nell’ultimo ventennio si sono susseguite hanno deregolamentato il mercato del lavoro italiano, trasformandolo profondamente. Il lavoro è cambiato diventando più flessibile o, a seconda dei punti di vista, più precario. Ma le differenze tra Nord e Sud sono rimaste simili a quelle del passato. Nelle regioni meridionali, il tasso di disoccupazione è quasi il triplo di quello del Nord, mentre i tassi di occupazione giovanile e femminile sono notevolmente più bassi. Per risolvere questo dualismo, nel 2001, il Libro bianco sul mercato del lavoro italiano, su cui si basò la successiva riforma, proponeva di superare la contrattazione collettiva, per permettere ai salari di differenziarsi tra Nord e Sud sulla base dei livelli relativi di produttività. Un obiettivo, questo, di recente riproposto da Tito Boeri, Andrea Ichino ed Enrico Moretti, in un’analisi che ha fatto molto discutere.
Boeri e coautori riprendono il fatto che in Italia le retribuzioni sono fissate attraverso contratti nazionali e, quindi, sono uguali in tutto il paese. Tra Nord e Sud, all’uguaglianza dei salari nominali si associano, però, significative differenze nei prezzi e nella produttività. Nelle regioni del Sud, i salari reali sono comparativamente maggiori e ciò determina disoccupazione e lavoro nero. Nel contempo, gli elevati prezzi – tra cui quelli delle abitazioni – del Nord disincentivano le migrazioni dei disoccupati meridionali. Per risolvere tali squilibri, affrontando alla radice il problema del dualismo Nord-Sud, Boeri e coautori propongono di sostituire la contrattazione nazionale dei salari con quella a livello di singola impresa o, nei casi in cui ciò non sia possibile, di differenziare i salari sulla base dei livelli locali di produttività. Questa proposta non convince per numerosi aspetti.
Il metodo di calcolo dei prezzi. Una prima criticità dell’analisi di Boeri e coautori riguarda il metodo di calcolo dei prezzi. Per calcolare le differenze regionali nel ‘costo della vita’, essi usano un indice che include i “prezzi delle case”. Seguendo un metodo usato negli Stati Uniti per misurare l’inflazione, essi ipotizzano che le spese per l’abitazione rappresentino ben il 34% della spesa complessiva delle famiglie italiane. Si tratta di un peso che è circa il triplo di quello calcolato dall’Istat. La ragione di questa scelta, che influenza tutta la loro analisi, è che Boeri e coautori includono tra le spese anche gli “affitti figurativi”, cioè la spesa che una famiglia avrebbe sostenuto se avesse preso in affitto la casa in cui abita e di cui è proprietaria. Poiché gli affitti figurativi non corrispondono a un esborso di denaro, né l’Istat né Eurostat li includono nei loro indici dei prezzi al consumo, di cui fanno parte solo gli affitti effettivamente pagati. Dato che, mediamente, i prezzi delle case e degli affitti sono molto più alti nel Nord che nel Sud, le conseguenze che derivano dal metodo di Boeri sono ovvie. Il “prezzo delle case”, ovvero degli “affitti figurativi”, spinge verso il basso i prezzi medi del Sud e verso l’alto quelli del Nord. Boeri e coautori calcolano che, per avere lo stesso potere d’acquisto di un suo collega di Ragusa, un insegnante di Milano dovrebbe ricevere uno stipendio del 48 per cento più elevato. Secondo le loro stime, Caltanissetta e Crotone diventano le province con più elevati salari reali d’Italia, mentre Aosta e Milano tra quelle con i salari più bassi. Questi risultati, è bene ribadirlo, dipendono dal metodo usato da Boeri e coautori per calcolare i livelli provinciali dei prezzi. È un metodo che suscita perplessità, tant’è che negli Stati Uniti, l’indice adottato per misurare l’inflazione (a cui essi fanno riferimento) non viene usato per comparare i prezzi tra aree geografiche. Negli USA, infatti, le comparazioni geografiche si basano su un indice diverso, che include sì gli “affitti figurativi”, ma con un peso inferiore a quello assegnato da Boeri e coautori. In nessun caso, poi, i valori delle abitazioni vengono usati per calcolare i livelli dei prezzi al consumo. Nessun cenno viene fatto, poi, dagli autori su quali e quanti beni abbiano usato per il loro indice, né si dice come siano stati rilevati i prezzi nelle province italiane. Qualche anno fa, l’Istat (2009) calcolò, con un metodo trasparente, i livelli dei prezzi nei capoluoghi regionali. La differenza tra la città più cara (Bolzano) e quella meno cara (Reggio Calabria), risultò di 12 punti percentuali. Un altro studio, condotto da Luigi Cannari e Giovanni Iuzzolino (2009), stimò che, considerando anche gli affitti figurativi, le differenze nei prezzi tra Nord e Sud fossero del 16 per cento. Differenze significative, ma assai minori di quelle calcolate da Boeri e coautori.
Produttività e salari: cosa dicono i dati. Nella loro analisi, Boeri e coautori affermano che in Italia le retribuzioni sarebbero sostanzialmente uguali, a fronte di ampi divari di produttività tra Nord e Sud. A sostegno della loro tesi, fanno solo riferimento alla produttività media del Nord. Nella Tabella 1 si riportano i dati sul costo del lavoro e sul fatturato per addetto nell’industria e nei servizi nelle macroregioni italiane. Nel regioni del Sud il fatturato per addetto è più basso che nel Nord (un divario che può essere spiegato anche dai volumi di domanda e dai prezzi), ma anche il costo del lavoro è minore. Le retribuzioni risultano, infatti, inferiori di circa 15 punti percentuali rispetto alla media italiana. Il rapporto tra retribuzioni e fatturato, che misura l’incidenza del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), può essere usato per misurare gli eventuali squilibri regionali tra queste due variabili. Nell’industria, il Clup del Mezzogiorno risultava analogo a quello del Nord, mentre nei servizi era in linea con quello nazionale (Figura 1). (Si veda anche qua)
Le minori retribuzioni del Sud riflettono non solo la ‘produttività’ media, ma anche il minor livello dei prezzi rispetto al Nord (perlomeno quando si fa riferimento alle stime Istat). In sostanza, retribuzioni medie, produttività e prezzi sono variabili sostanzialmente allineate. Si badi bene, però: un confronto tra esse va fatto con prudenza, poiché concetti come ‘produttività media’ e ‘costo del lavoro medio’, quando riferiti a economie strutturalmente diverse come quelle del Nord e del Sud hanno poco significato. Nel Sud, l’incidenza di settori tradizionali, a basso valore aggiunto, come l’agricoltura e i servizi pubblici o alla persona è molto maggiore che al Nord. La conseguenza è che la produttività, prima, e il costo medio del lavoro, dopo, saranno strutturalmente inferiori che al Nord. E ancora, le differenze nei prezzi tra le due aree influenzano, in parte, il fatturato e aiutano, quindi, a capire meglio i divari di produttività. Nei confronti tra Nord e Sud è necessario tenere conto di ciò. Il rischio è quello di raggiungere conclusioni fuorvianti.
Impoverire il Mezzogiorno e l’Italia. I dati mostrano come tra Nord e Sud, le differenze nei prezzi e nella produttività siano sostanzialmente allineate a quelle nel costo del lavoro. In assenza di ulteriori elementi, è difficile capire su quali dati Boeri e coautori basino la loro proposta di differenziazione salariale. La loro analisi – come quelle simili di altri autori – non suscita solo perplessità metodologiche. Le perplessità sono ancora maggiori quando se ne considerano le implicazioni di politica economica. L’idea che la riduzione del costo del lavoro al Sud si tradurrebbe in un aumento dell’occupazione e dei redditi non è affatto dimostrata. Per esempio, minori salari implicano, infatti, minore domanda di beni e servizi, cioè minore produzione e produttività. Anche l’argomento secondo il quale le differenze salariali tra Nord e Sud, incentiverebbero l’emigrazione dei disoccupati è discutibile. Non si capisce perché l’emigrazione dovrebbe essere “forzata” con riduzioni salariali, quando di fatto è già in atto, anche per effetto del livellamento tra produttività e salari, i quali risultano già spontaneamente differenziati tra le diverse aree del paese (bassi a Sud, alti a Nord). Tra il 2002 e il 2016, oltre 783mila persone hanno lasciato le regioni meridionali emigrando verso il Nord e l’estero. Di questi mezzo milione sono giovani.
La differenziazione salariale tra Nord e Sud non funzionò negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si introdussero le ‘gabbie salariali’. Come mostra uno studio di Guido de Blasio e Samuele Poy (2017), il minore salario al Sud (le differenze raggiunsero il 30 per cento) non fece aumentare l’occupazione né incentivò gli investimenti. Se non funzionò in passato, potrebbe mai funzionare oggi una politica diretta a favorire la competitività regionale facendo leva sul costo del lavoro? In un mondo integrato ha poco senso confrontare Nord e Sud. Di quanto dovrebbe diminuire il costo del lavoro al Sud perché possa competere con la Romania o la Cina? Si crede davvero che sia il costo del lavoro la leva su cui agire? Perché non intervenire, invece, su quei fattori – come la tecnologia, il capitale umano, le infrastrutture – da cui davvero dipende la produttività del lavoro sia a Nord che a Sud? Nell’ultimo ventennio, il mercato del lavoro è stato riformato pensando che flessibilità e deregolamentazione avrebbero favorito occupazione e crescita. Come risultato, si è creata una generazione di lavoratori precari e a basso costo. La contrattazione nazionale rimane l’ultimo baluardo da abbattere per coloro che credono che le regole siano un intralcio e che il mercato, unicamente e inevitabilmente, generi benessere sociale.