L’Italia porta a Bruxelles il problema dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, che va al di là del fenomeno del caporalato e, nonostante la sua maggiore diffusione in alcuni paesi del Mediterraneo e nel Sud Europa, ha respiro europeo. E’ quanto emerge dal rapporto ‘Best Practices against Work Exploitation in Agriculture’, realizzato dal Milan Center for Food Law and Policy in collaborazione con Coop e presentato stamane al Parlamento europeo nell’ambito del progetto ‘Be Aware’, sulle buone prassi contro lo sfruttamento del lavoro nell’agricoltura.
Forme di lavoro illecito e sommerso, si legge nel rapporto, riguardano una “minoranza significativa” del totale dei lavoratori del settore in tutta l’Ue, soprattutto negli Stati del Mediterraneo e dell’Est europeo. In alcuni contesti, come in Romania e Portogallo, le stime parlano rispettivamente del 40 e del 60% di irregolari sul totale dei lavoratori in agricoltura. In Polonia si stima un dato superiore al 25%, in Italia si va oltre il 30%. L’Italia si è dotata da poco di una legge contro il caporalato. Quest’ultima, sottolinea lo studio, arriva appena cinque anni dopo un’iniziativa analoga, segnale della “necessità di disciplina di quello che è un fenomeno molto diffuso nel nostro Paese”. D’altro canto in Germania e Austria, la percentuale è al di sotto del 10%, a fronte di una media europea del 25%.
Il fenomeno è difficile da misurare, a causa dei diversi parametri che sono adottati nei diversi paesi, a partire dalle differenze nella definizione giuridica di azienda agricola. Una disomogeneità normativa che coincide con un cono d’ombra nella legislazione europea, per diventare anche barriera tecnica al commercio e fattore di distorsione della concorrenza nel mercato interno. Le differenze tra le realtà nazionali si spiegano con la diversità strutturale dei sistemi agricoli, la presenza più o meno significativa di produzioni stagionali e quella più o meno forte dell’immigrazione, il numero di aziende agricole e la loro capacità di innovare dal punto di vista dei processi tecnologici, capaci di incidere sulla quantità e la qualità della manodopera necessaria a svolgere le lavorazioni in azienda. Ma, anche, con diversi modi di considerare dal punto di vista giuridico, e misurare da quello statistico, definizioni essenziali a tracciare il quadro generale del problema come “lavoratore” o “azienda” agricola.
Non è semplice individuare le vittime di lavoro informale, sommerso o gravemente sfruttato, e chi prova a occuparsi del fenomeno a livello europeo si trova davanti a una “zona grigia”, non solo in riferimento alla presenza di comportamenti illegali, ma anche per la difficoltà di reperire dati omogenei. Le buone prassi tuttavia esistono, come in Italia con la Campagna “Buoni e giusti” della Coop e i progetti della Caritas, in Francia grazie alle regole sulla raccolta dell’uva o in Spagna nel settore dell’ortofrutta nella regione dell’Almeria, dove l’agricoltura funziona da strumento di integrazione di immigrati e non di emarginazione.