In 10 anni, sono circa 100mila, in Italia, i bimbi nati in provetta grazie alla Procreazione Medicalmente Assistita (pma). Tuttavia, ancore troppo poche sono le coppie infertili che, prima di intraprendere questo cammino non semplice, si rivolgono a un andrologo: appena una su quattro. A ricordarlo sono gli esperti della Società Italiana di Andrologia (SIA), in occasione del quarantesimo compleanno di Louise Brown, la prima bambina venuta al mondo dopo essere stata concepita in provetta.
Continuano ad aumentare le coppie italiane che si rivolgono ai Centri di medicina della riproduzione, e in Italia, dal 2005 al 2015, in base ai dati del registro dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sono state effettuate oltre mezzo milione di procedure di fertilizzazione in vitro, da cui sono nati oltre 100mila bimbi. Ma tuttora, nonostante il continuo miglioramento delle tecniche, la probabilità di riuscita delle procedure di PMA è inferiore al 50%. Se un figlio non arriva si punta in genere l’attenzione sulla donna, mentre in circa la metà dei casi la causa dipende da problemi maschili spesso risolvibili con un’adeguata prevenzione o specifiche terapie. Eppure il maschio è ancora il “grande assente”: solo 60mila delle 250.000 coppie con problemi di fertilità ‘ricordano’ di fare diagnosi e cura di lui, una su 4. “L’infertilità maschile – spiega Alessandro Palmieri, presidente SIA e professore dell’Università Federico II di Napoli – è raddoppiata negli ultimi 30 anni e il fattore maschile è sovrapponibile a quello femminile, tanto che si stimano circa 2 milioni di italiani ipo-fertili.
Ciò nonostante, mentre a volte, ci si accanisce nell’individuazione e trattamento delle cause femminili, spesso si tralascia del tutto l’altra metà della coppia”. Interventi poco complessi e costosi, come la correzione del varicocele, la cura di infiammazioni urogenitali, l’uso di terapie ormonali o di molecole antiossidanti, conclude, “potrebbero evitare la PMA in almeno 8mila coppie ogni anno o migliorarne gli esiti fino al 50% dei casi”.