Sono sette le ordinanze di custodia cautelare eseguite nel corso dell’operazione Pietranera e che avrebbe fatto luce si un sistema di estorsioni ad un imprenditore agricolo dello ionio catanzarese.
Le misure, emesse dal gip Distrettuale di Catanzaro su richiesta della Dda sono scattate per Vincenzo Gallelli, 74enne, noto come “Cenzo Macineju” e ritenuto a capo del clan; Andrea Santillo, detto “Nuzzo”, 57enne; Antonio Santillo, 28enne; Antonio Gallelli, 37enne; Francesco Larocca, 51enne; Giacomo Nistico’, 50enne; Giuseppe Caporale, 36enne.
Gli indagati, tutti del comprensorio di Soverato, sono accusati, a vario titolo, di numerosi episodi di estorsione aggravata dalla metodologia mafiosa nei confronti di due imprenditori agricoli di Badolato.
Le attività investigative, condotte dalla Squadra Mobile del capoluogo – sotto la il coordinamento di Vincenzo Luberto e dell’Aggiunto Vincenzo Capomolla della Procura Distrettuale Antimafia e con la supervisione del Procuratore Capo Nicola Gratteri – avrebbero portato a scoprire come il presunto capo cosca, Vincenzo Gallelli, avrebbe imposto, e per oltre vent’anni, la “guardiania” sulle proprietà di una nota famiglia latifondista di Badolato.
Secondo gli inquirenti, il “boss” avrebbe fissato le modalità con cui si sarebbero dovuti sfruttare i terreni costringendo di anno in anno gli imprenditori a concederli a pascolo ed erbaggio a propri familiari, nipoti e pronipoti, impedendone dunque il libero sfruttamento commerciale ai proprietari.
Le indagini, effettuate con intercettazioni telefoniche e ambientali, svelerebbero come i latifondisti – vittime dell’estorsione dalla metà degli anni ’90 e fino al 2008 – siano stati costretti ad accettare la presenza nelle loro aziende, del “custode” di Vincenzo Gallelli.
Ciò avrebbe garantito loro la “tranquillità ambientale”, tanto da costringerli a donargli come controprestazione, numerosi terreni, forzandoli ad affidare la gestione e lo sfruttamento di altri fondi a sé o ai suoi familiari più prossimi, come il pronipote trentasettenne Antonio Gallelli, con il divieto di esercitare sui terreni qualsiasi attività che non fosse concordata con il capo cosca.
Gli investigatori spiegano che ogni volta che le vittime hanno cercato di dare avviare una produzione agricola intensiva, i loro raccolti sarebbero stati distrutti dagli animali dei membri della famiglia Gallelli, lasciati pascolare abusivamente sui terreni coltivati. Un altro elemento emerso sarebbe la condizione di omertà imposta ai titolari dell’azienda agricola, situazione che li avrebbe costretti a modificare e rivedere i termini e le condizioni contrattuali stabiliti con altri operatori agricoli, la cui presenza avrebbe dovuto rappresentare un argine alle pretese e ai condizionamenti di Gallelli.
Quest’ultimo avrebbe usato il nipote, Antonio Santillo, i pronipoti Antonio Gallelli e Giuseppe Caporale, paventando attraverso Franco Larocca, e il genero Giacomo Nisticò, il verificarsi di gravissimi atti di sangue se le direttive del boss non fossero state seguite.
Gli inquirenti parlano infine di un “contesto di totale soggezione psicologica” nel quale si sarebbero venute a trovare le vittime, e tale da portarle a non sporgere denuncia contro l’occupazione dei terreni e l’utilizzo dei mezzi agricoli che, nel corso degli anni i Gallelli, avevano attuato anche minacciando il fattore dell’impresa.