“Morale e metodo nell’intelligence” è il tema della lezione tenuta da Francesco Sidoti, Professore Emerito dell’Università dell’Aquila per le discipline di Sociologia e Criminologia, al Master in Intelligence dell’Università della Calabria, diretto da Mario Caligiuri.
Sidoti ha iniziato ad affrontare il rapporto con la morale, sottolineando la rilevanza dell’argomento in generale e nell’intelligence in particolare. In proposito ha rilevato che siamo in presenza di una letteratura sterminata, nella quale brilla un testo scritto nel 1996 da Umberto Eco, l’intellettuale italiano più rispettato e acclamato dell’Italia repubblicana: “Lo spionaggio è una cosa brutta, ma Machiavelli insegna che il Principe, per il bene dello Stato, deve talora fare anche delle cose brutte. Inoltre i servizi segreti hanno un’altra caratteristica. Siccome debbono trovare non solo dei coraggiosi che si infiltrino, ma anche dei delinquenti disposti a tradire i loro complici (e quindi delinquenti doppi), hanno di solito a che fare con gentaglia. Nessuno deve scandalizzarsi: ogni questura usa degli informatori che si vendono per quattro soldi e non si può pretendere che chi si vende per quattro soldi sia un gentiluomo. Chi ha a che fare con gentaglia, o ha una solida moralità e nervi saldissimi (come si richiede per esempio a un esorcista che parla col Diavolo ogni giorno) oppure è soggetto a molte tentazioni ovvero deviazioni”.
All’epoca, a parlare dello specifico mondo morale dell’intelligence, Umberto Eco non era per niente isolato. Altrove da lungo tempo c’era in corso un tormentato dibattito. Negli Stati Uniti, a proposito dell’equilibrio mentale e morale di chi lavora in strutture che per dovere istituzionale si dedicano a coltivare l’analisi della doppiezza, del sospetto, dell’ambiguità, della clandestinità, del la-realtà-non-è-quel-che-appar
Osservazioni ancora più inquietanti – prosegue Sidoti – si ritrovano successivamente in George Bush senior e in vari altri, fino ai giorni nostri: il 15 aprile 2019, Mike Pompeo ha pubblicamente detto:
“Qual è il motto dei cadetti a West Point? Non mentirai, non imbroglierai, non ruberai e non tollererai coloro che lo fanno. Ero il direttore della CIA. Abbiamo mentito, abbiamo imbrogliato, abbiamo rubato. (Risate.) È – era – come se avessimo frequentato interi corsi di formazione. (Applausi.) Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano”.
La citazione è tratta dal sito ufficiale del Dipartimento di Stato.
Per il docente, il tema morale è stato approfondito nel mondo dell’intelligence molto prima che esplodesse nella percezione comune e diventasse centrale nelle guerre di opinione, fino agli odierni estremi della “cancel culture” e della “woke culture”. Basti pensare che l’Ethics and Public Policy Center è stato fondato a Washington D.C. nel lontano 1976.
Nel corso del tempo, soprattutto nelle società democratiche gli operatori di intelligence sono stati spesso accusati di non avere una morale, o, tutt’al più, di averne una del tutto particolare.
Il docente ha chiarito innanzitutto che il termine “morale” non deve essere riferito a un complesso di esortazioni edificanti, in una visione che vede frontalmente contrapposti bene e male. Per alcuni l’etica, nel nostro Paese, è considerata un espediente fumoso. Per una sorta di pregiudizio, conseguenza di una storia lunga, da Machiavelli in poi, e per un’attualità controversa.
Distinto dall’uso comune, il termine morale ha un significato specifico nella letteratura sociologica, con opere miliari come quella di Sumner. In proposito, Sidoti ha ricordato che esiste una trattazione parallela nella letteratura giuridica, che ha portato all’elaborazione di teorie, che, sulla base di Santi Romano, affermano l’esistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici.
Tra questi, quelli riconducibili alla mafia, alla chiesa, alla massoneria, e così via. Si tratta di organizzazioni tutte caratterizzate da regole specifiche e ordinamenti morali diversi.
Di fatto, esiste indubbiamente una molteplicità di ordinamenti giuridici, e tutti rinviano a una molteplicità di mondi morali. Storicamente, così evidentemente è per quanto riguarda “i libri sacri del diritto”, dal Corpus iuris civilis al Code Civil, dalla Magna Charta Libertatum al Bill of Rights.
A differenza delle macchine e degli animali, per il docente, gli esseri umani obbediscono a istruzioni che non sono determinate dall’istinto o da un programma: i comportamenti umani sono profondamente influenzati da un insieme di regole giuridiche e morali, esterne e interne alla persona, sottoposte a dibattito e a critica.
Questa considerazione ha un rilevante significato pratico e concreto, rappresentando la prima pietra su cui fondare la successiva costruzione. “Il nostro mondo morale – ha argomentato – non è tanto rilevante per quanto riguarda il comportamento nella vita quotidiana, che ubbidisce spesso a logiche meccaniche oppure utilitaristiche e di convenienza, ma assume una valenza specifica nelle situazioni strategiche, nelle quali si delineano le nostre scelte più significative”.
Sidoti ha proposto un altro esempio: anche il mafioso ha un suo specifico mondo morale, spesso molto intenso e complicato. Anche una persona che agisce contro la morale ha in realtà una sua morale. Lo stesso ragionamento si può fare per il terrorismo e per vari altri casi.
In tal senso, per comprendere meglio il termine “morale” occorre considerare la parola latina “mores” e il senso specifico del “mos maiorum”, che faceva originariamente riferimento a una divisione e a una contrapposizione: i mores degli antichi contrapposti a quelli dei moderni. Possiamo tradurre questa parola antica con il termine “costume”, ma ha un contenuto molto più intenso, dal punto di vista cognitivo e comportamentale.
Per Sidoti, un’implicazione è evidente: la legge stessa è conseguenza di imperativi di ordine morale e se questi imperativi sono diversi la legge stessa può essere differenti e le conseguenze pratiche sono dissimili.
Il nostro mondo morale interiore non è soltanto la base dei nostri valori e delle nostre preferenza ideali: è la base delle nostre scelte pratiche; ci comportiamo in un modo o in un altro perché ci conformiamo, più o meno coscientemente, al mondo morale che abbiamo interiorizzato.
Su questo c’è una letteratura immensa, che parte dai classici dell’età romana e arriva a Pareto, Weber, Durkheim, Parsons. I classici della sociologia hanno trattato l’argomento per centinaia e centinaia di pagine, mostrando la sua rilevanza pratica e concettuale, come per esempio, la distinzione tra legalità e legittimità.
Nel campo dell’intelligence – secondo il docente – esiste una specificità del mondo morale, che può essere esemplificata attraverso il riferimento a due temi: tradimento e verità.
La ricerca della verità può essere intesa in maniera semplicistica. Non è così nel mondo dell’intelligence, distintivamente interessata alla manipolazione della verità. Infatti, oltre che informazione, c’è disinformazione, controinformazione, falsificazione, intossicazione, propaganda, e così via.
Nell’intelligence, la verità raramente è limpida, per l’argomento in sé e perché, come spiega una vasta letteratura scientifica, in ognuno di noi il bisogno di coerenza cognitiva si misura costantemente con fenomeni di arousal, di selective exposure e di social loafing: siamo strutturalmente dotati di un apparato cognitivo pigro e debole, poichè spesso selezioniamo artificiosamente i segnali e li deformiamo inconsapevolmente, per cercare la via maestra della deresponsabilizzazione.
La presunzione e la volontà di potenza – ha spiegato – sono sempre in agguato. Il problema del metodo ha rilevanza specialmente se confrontato con l’immane rumore di fondo che è tipico della nostra epoca.
Per intendere in pieno il concetto, bisogna fare attenzione alla sua definizione nella teoria dell’informazione: il rumore è un segnale che disturba l’elaborazione dei dati in una percezione e in un sistema decisionale.
Il rumore di fondo è una somma di oscillazioni irregolari, talvolta intermittenti e talvolta casuali. Dal punto di vista fisiopatologico, è un suono indesiderato e fastidioso, che altera il razionale procedere della mente. Il punto è stato sottolineato da D. Kahneman, O. Sibony, C. R. Sustain, in “Rumore. Un difetto del ragionamento umano”, pubblicato nel 2021.
In particolare, per Sidoti, nell’intelligence il concetto di verità si inserisce nel rumore dominante ed è specifico: l’investigazione cerca la verità; ma questo per l’intelligence è troppo poco: spesso l’intelligence in un certo senso crea una verità oppure la nasconde. Questo non avviene sempre, ma in casi qualificati e determinanti, come insegnano la storia del controspionaggio e della disinformazione.
Pure la questione del tradimento può essere intesa in maniera semplicistica: per un verso indurre al tradimento appare una pratica necessaria per acquisire informazioni privilegiate dalla controparte; per altro verso le strutture di intelligence hanno il dovere di pensare al tradimento come qualcosa che può verificarsi tra le proprie fila.
Più in generale, l’attenzione alla doppiezza può portare allo sdoppiamento, e il comprendere le ragioni degli altri può portare all’immedesimazione, come nel celebre aforisma di Nietzsche: “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”.
Il docente ha poi ricordato che, da Eschilo in poi, quinto secolo avanti Cristo, si dice che nelle guerre la prima vittima è la verità. E l’intelligence è costantemente sul piede di guerra.
Dal punto di vista morale si può affermare che il mondo dell’intelligence sia caratterizzato da un gioco di ombre e di specchi in cui la manipolazione dei fatti assume un ruolo fondamentale sia in termini di difesa dei propri interessi che di penetrazione nel mondo della controparte.
In riferimento all’ambito della verità, un’altra importante questione esaminata durante la lezione ha riguardato la differenza tra investigazione e intelligence.
L’investigazione interviene successivamente agli accadimenti, per cui ha il compito di ricostruire, per quanto possibile, la verità storica. Al contrario, l’intelligence intende prevedere i fenomeni, per anticipare decisioni, prospettive, contrasti. Soprattutto, è in rilievo la costruzione di verità alternative.
Per Sidoti, ancora più problematiche appaiono le interazioni che possono avvenire nel Deep State, oggi impropriamente inteso come sinonimo di “Estabilishment” o di “Élite al potere” o di “governo invisibile”, e così via.
Il docente ha ricordato che l’espressione “Deep State” nasce in Turchia, quando per un tragico incidente stradale, alla periferia di Susurluk, furono ritrovati insieme, nella stessa vettura, i corpi di persone ai vertici dello Stato, della politica e della mafia, rivelando il collegamento tra esponenti delle istituzioni e del mondo del crimine.
La differenza distintiva per il deep state è infatti il rapporto occulto e organico con la peggiore malavita. Se non si comprende il punto, il concetto di deep state mancherebbe di qualifica specifica: quello Stato è profondo e non si vede, ma il punto discriminante è che ci stanno gli squali talmente in profondità che non si vedono.
Sidoti ha poi sottolineato come l’espressione “stato profondo” riguardi anche i rapporti che avvengono nei corridoi dei ministeri, nelle anticamere delle stanze del potere istituzionale, negli incontri massonici, all’interno delle ambasciate. In tutti questi ambienti e in altri si coltivano rapporti sicuramente specifici a confronto con la morale comune.
Questo è un punto centrale della lezione tenuta da Sidoti. Tra i molteplici mondi morali sicuramente c’è quello per il quale la sicurezza dello Stato è la necessità principale, come dice il brocardo latino “Salus rei pubblicae suprema lex est”, dove il termine “salus” è a metà strada tra “salute” e “salvezza”, con una intenzionalità che in genere è sottovalutata e che invece va compresa nel suo contenuto cognitivo e comportamentale.
Il docente ha ricordato il caso emblematico dell’intelligence inglese che, durante la seconda guerra mondiale, fu in grado di decriptare i messaggi in codice nazisti, consentendo in modo determinante di volgere a proprio vantaggio il conflitto. In quel frangente il contenuto scientifico dell’intelligence fu molto evidente e al contempo fu evidente la rilevanza della tematica morale.
Proprio per garantire il bene supremo della salvezza dello Stato, gli inglesi non salvarono volutamente tutte le loro navi, consentendone l’affondamento di alcune da parte dei nazisti, in modo che questi non sospettassero che tutte le loro comunicazioni fossero sistematicamente intercettate. Sono quindi stati gli imperativi morali che hanno giustificato scelte scomode e certamente difficili.
Sidoti ha poi citato il caso della Svezia, che è riuscita a sottrarsi al secondo conflitto mondiale proprio grazie al lavoro svolto dall’intelligence, preservando il bene supremo di salvare vite umane.
Esaminando quello che è successo in Italia, il docente ha affrontato il tema di come l’interesse strettamente privato possa a volte prevalere, come nel caso dei fondi neri del Sisde, di cui si sono appropriati alcuni dirigenti che sono stati smascherati e condannati.
Il mondo morale che segnò quell’epoca, caratterizzata dalla guerra fredda, è stato poi accostato dal docente alle precedenti vicende di Enrico Mattei, tragico protagonista di una “sfida perduta”, che è stata una sconfitta degli interessi nazionali.
A questo punto, Sidoti ha ricordato l’opera di riforma delle strutture italiane di intelligence promossa negli anni Novanta da Carlo Mosca, sia per quanto riguarda i comportamenti interni sia aprendo verso la società con inedite attività di comunicazione e di formazione.
Tra queste, nel 1995 la creazione della prima rivista dell’intelligence italiana, “Per Aspera Ad Veritatem” volta a far conoscere in che cosa consistesse effettivamente il lavoro dell’intelligence.
Negli Stati Uniti erano state adottate forme di controllo democratico degli apparati di intelligence a partire dai Washington Papers del 1971 e dallo scandalo Watergate del 1974 che aveva portato alle dimissioni del Presidente Richard Nixon.
Da quel momento la trasparenza e l’accountability, cioè il rendere conto, sono stati riconosciuti come preminenti nei comportamenti dell’intelligence in funzione del perseguimento dell’interesse nazionale.
La cultura dell’intelligence democratica – ha proseguito – affonda le sue radici in una visione di sicurezza che va oltre la garanzia di un ordine sociale che è espressione del mondo morale dell’élite che è al potere e al governo del Paese.
L’intelligence democratica – per Sidoti – ha una storia recente e una morale radicalmente diversa rispetto al passato, descritta e spiegata da Carlo Mosca in maniera impareggiabile.
Nell’orientarsi tra tutte le costellazioni morali, l’intelligence democratica fa riferimento a riferimenti obiettivi, in primo luogo la legalità.
Nella società liquida contemporanea, nella stragrande maggioranza dei casi le controversie avvengono per la rivendicazione – spesso in buona fede – della superiorità del proprio mondo morale, e, pertanto, delle proprie ragioni.
Ognuno di noi, ha ricordato, è prigioniero del proprio mondo morale e a volte del proprio passato. La vita è in parte una lotta per uscire fuori da questa gabbia, sia fisica che mentale, sia comportamentale che culturale. Per il docente, talvolta questa gabbia è talmente grande che rimane sconosciuta anche a noi stessi. Su tali presupposti tutti noi costruiamo le nostre autostrade mentali e la dicotomia “amico/nemico”.
In definitiva, Sidoti sostiene che la dimensione morale, che risponde all’esigenza primaria di dare un senso alle nostre esistenze e che guida in ultima analisi le priorità che perseguiamo attraverso i metodi propri dell’intelligence, ci consente di individuare le informazioni rilevanti.
Ha affermato: “Dopo una lunga esperienza in questi campi, sono sempre più convinto che il principio del metodo sia questo: dobbiamo accettare la nostra fallibilità, la nostra miseria cognitiva, la straordinaria complessità del mondo. E di tutto ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Questi temi sono stati sottolineati da Sidoti nel 1998 ed hanno trovato nuova fortuna nella trattazione di Dario Antiseri e Adriano Sioi nel 2013. La cultura fallibilista comincia con Socrate, continua con Montaigne, Cusano e arriva fino a Popper.
Questo ci dovrebbe portare a un atteggiamento di umiltà e a conseguenze straordinarie anche nell’ambito processuale, come nell’ambito dell’intelligence. Non significa rinunciare alla giustizia ma significa solo che la nostra legittima sete di giustizia non può e non deve trovare realizzazione in verdetti approssimativi.
Non perché la nostra sete di giustizia debba rimanere rassegnata, condannata all’impotenza e alla sconfitta. Ma proprio per senso della giustizia, su tantissime cose non possiamo avanzare giudizi di condanna basati su ipotesi improbabili, su ricostruzioni fragili, su elementi puramente indiziari che sarebbero figli di una volontà di potenza.
In definitiva, Sidoti auspica “nell’investigazione come nell’intelligence, un metodo minimalista-fallibilista, non rassegnato all’errore o che si sottrae ai suoi compiti, ma consapevole dei limiti. E una morale corrispondente, dello stesso tipo: estremamente cauta”.
Del resto, questo è l’insegnamento che ci viene dallo studio della storia, remota ma anche recente e recentissima dell’intelligence, che, a livello internazionale, è colma di fallimenti, di avvenimenti non previsti, di ipotesi errate.
Come è noto, ha evidenziato, la più importante agenzia di intelligence è la CIA. Ebbene, sicuramente ha conseguito successi decisivi in Italia, ma per il resto, semplificando all’estremo, ha contato molti fallimenti internazionali, anche recenti, dall’Afghanistan all’Iraq, come è stato sostenuto in varie commissioni d’inchiesta da esponenti politici come Tony Blair.
C’è sicuramente un’enorme superiorità informativa e operativa negli Stati Uniti, ma è un prodotto del soft power nel suo complesso, soprattutto negli anni di Obama.
Metodo e morale si ricongiungono per Sidoti attraverso un approccio metodologicamente avvertito, dunque minimo, mite, minimalista che diventa indispensabile.
Bisogna stare attenti non soltanto alle distorsioni in malafede, ma soprattutto a quelle in buonafede. La tensione etica è continuamente sottoposta alla tentazione di scambiare indizi per prove, ipotesi per fatti, fischi per fiaschi, lucciole per lanterne.
La paranoia è una malattia professionale dell’intelligence, come disse George Bush senior, ricordando i suoi anni nella Cia.
Questo metodo fallibilista incarna la tradizione pacifica della migliore cultura italiana e propone le armi del dialogo e della comprensione, la ricerca di un ordine globale cooperativo, con efficienti camere di compensazione e validi organismi di mediazione.
Il docente ha precisato: “Morale e metodo sono i due fondamenti della intelligence, o almeno di quello che io intendo per intelligence: una morale che non è moralismo e un metodo che è innanzitutto senso della misura, perché i più grandi errori nascono dalla superbia e dalla ignoranza. In questo senso il metodo ha una sua morale, e c’è un metodo in ogni morale”
“La morale – ha proseguito – non ha bisogno di eroi. Aveva ragione Bertold Brecht, ma lo aveva detto prima Francesco Saverio Nitti: “beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Pirandello disse che è più difficile e più meritorio essere gentiluomini che eroi, perché si è eroi per una volta sola, ma gentiluomini occorre esserlo per tutta la vita”
Sidoti ha concluso: “Molti parlano della Morale con la M maiuscola, mentre io ho parlato di una morale con la m minuscola. Per l’intelligence, come per la vita di tutti i giorni, ho tessuto le lodi di una morale minima, mite, realista, prudente. Credo sia la migliore, per l’intelligence come per tutto il resto”.